Condannata la Scala di Milano per comportamenti discriminatori e vessatori nei confronti di una ex ballerina

Condannata la Scala di Milano per comportamenti discriminatori e vessatori nei confronti di una ex ballerina

Interessante pronuncia della Corte d’appello di Milano, sent. n 475 del 2021, pubblicata il 6 maggio 2021, che ha condannato la Fondazione Scala di Milano al risarcimento del danno, a favore di una ex ballerina del corpo di ballo, assistita dallo studio Labour & Public e da uno studio milanese, per atteggiamento illecito posto in essere da vari direttori artistici.  Tale atteggiamento è consistito in reiterate vessazioni, umiliazioni e discriminazioni inflitte per futili motivi, nell’arco di otto anni di carriera artistica: non assegnazione immotivata di parti, adatte invece alle caratteristiche artistiche del soggetto, esclusioni all’ultimo momento ecc. Tali comportamenti hanno inciso non tanto sullo sviluppo della carriera (non viene riconosciuto, ancorché con formula dubitativa, il danno da perdita di chance), ma certamente sulla salute della persona, vessata, umiliata e discriminata. La vittima ha subito, secondo la Corte milanese, sofferenze fisiche e psichiche, con danni permanenti alla salute per come attestati dalla CTU d’ufficio, che ha smentito la perizia del CTU di primo grado, che attribuiva lo stress fisico e psichico non alla causa di lavoro, ma al carattere personale e ai trascorsi di infanzia e adolescenza della vittima.

La Corte d’appello ha riformato una precedente pronuncia dello stesso Tribunale che, sulla base dei medesimi fatti, aveva riconosciuto soltanto il risarcimento da danno esistenziale, ma non il danno alla salute. Con la sentenza citata, la Corte d’appello ha considerato la condotta accertata produttiva, pure, di danno biologico e alla salute per violazione dell’art. 2087 c.c. con effetti di invalidità permanente; il valore economico del danno è stato calcolato utilizzando lo standard statistico delle tabelle milanesi, recentemente aggiornate.  

Sulla base delle argomentazioni della difesa della ex ballerina, la Corte d’appello ha riconosciuto, in ragione del comportamento vessatorio della pur prestigiosa istituzione, l’insorgenza della malattia “nel suo duplice aspetto di diminuzione della funzionalità fisica e psichica”. Sia la Corte d’appello, sia in precedenza il Tribunale, non si sono spinti a qualificare i comportamenti vessatori perpetrati, continuativamente, in   un arco di 8 anni, come mobbing (o straining).

In particolare, la difesa dell’appellante, nella specie, aveva richiamato la sottocategoria del mobbing artistico che, insieme al mobbing sportivo, costituisce una sottospecie particolare di mobbing. È noto infatti che le società sportive professionistiche o, nel caso, le fondazioni musicali, ove si svolge lavoro artistico nella modalità subordinata, hanno una amplissima discrezionalità nell’assegnazione di ruoli e funzioni, artistiche o sportive che siano. É il direttore del corpo di ballo che, insieme al regista o al coreografo, decide, di volta in volta, in ragione delle parti da assegnare e delle caratteristiche fisiche o artistiche dei componenti del corpo, l’assegnazione di quelle più importanti e prestigiose; e sono tali le parti che mettono in evidenza il talento consentendo poi lo sviluppo della carriera (per esempio la promozione stabile alla posizione di prima ballerina). Se, come ha affermato la Corte nel motivare il proprio convincimento circa l’insussistenza della fattispecie di mobbing, nella professione di ballerina, “il talento non è garanzia di successo”, il comportamento della prestigiosa Fondazione merita di essere stigmatizzato e censurato, sino al punto di comminare alla Fondazione medesima una condanna per danni alla salute, per violazione dell’art. 2087 c.c., e per danno esistenziale (quest’ultimo già comminato nella sentenza di primo grado).

I denunciati comportamenti, che hanno determinato l’umiliazione professionale di una pupilla di Nurayev, esclusa e vessata nel tempo per motivi bagatellari, vengono qualificati dalla Corte milanese come “atteggiamenti molto gravi che denotano l’esistenza di un ambiente di lavoro malsano ed un totale disinteresse per le ricadute che ciò poteva avere sulla dipendente, che non avrebbe potuto non reagire con sentimento di frustrazione e delusione. Sentimento particolarmente forte, (…) vista la natura dell’attività di cui si discute, e il fatto, non contestato, che alla (sig.ra x) non difettasse il talento”.  

Tutto ciò, come si diceva, tuttavia non è bastato alla Corte a evidenziare il mobbing come fattispecie ulteriore rispetto al comportamento di   violazione degli obblighi di sicurezza; ciò, malgrado il fatto che   il noto psicologo Harald Ege, nella perizia di parte, avesse individuato tutti gli elementi progressivi tipici della fattispecie di mobbing artistico. Ciò dimostra, una volta di più, come l’intento persecutorio (di difficile definizione ma soprattutto di quasi impossibile prova in giudizio: di fatto una probatio diabolica) costituisca una sorta di “diga” (eretta dalla giurisprudenza di Cassazione) ormai quasi invalicabile: posta, anche comprensibilmente, per impedire la banalizzazione e il ricorso corrivo alla fattispecie di mobbing, tale “diga” rischia alla fine, per eccesso di rigore, per espungerla quasi del tutto dalle aule giudiziarie.

Studio legale Labour & Public – Prof. Avv. Sebastiano Bruno Caruso – Prof. Avv. Antonio Lo Faro – Prof. Avv. Loredana Zappalà

Share with

Start typing and press Enter to search