L’obbligo vaccinale – e i conseguenti effetti di sospensione del rapporto di lavoro nell’ipotesi di violazione – si applicano al di là di ogni formalistica interpretazione della nozione di luogo di lavoro

L’obbligo vaccinale – e i conseguenti effetti di sospensione del rapporto di lavoro nell’ipotesi di violazione – si applicano al di là di ogni formalistica interpretazione della nozione di luogo di lavoro

Interessante pronuncia del Tribunale Ordinario di Cagliari, Sezione Lavoro, il quale, con ordinanza n. 2690/2022 del 18.03.2022, nell’accogliere le difese di una impresa sociale, assistita dallo Studio Legale Labour & Public, ha rigettato il ricorso per provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. promosso da una lavoratrice no vax che aveva contestato il provvedimento di sospensione che la riguardava, sostenendo  l’inapplicabilità, ratione loci, dell’art. 4-bis del D.L. 1 aprile 2021, n. 44, nel testo novellato dal D.L. 111/2021, convertito con modificazioni dalla L. 133/2021.

La lavoratrice, dipendente di una grande impresa sociale – “addetta alle pulizie” per il servizio di assistenza domiciliare integrata e assistenza disabili per il Comune di Cagliari (ente committente) – prestava la propria attività presso il “domicilio” dell’assistito. Sotto il profilo formale, dunque, l’attività di lavoro si svolgeva in  un luogo privato: vale a dire nell’abitazione  dell’assistito e non presso una struttura istituzionalizzata; sotto il profilo funzionale, tuttavia, i compiti di assistenza erano esattamente identici a quelli che la lavoratrice avrebbe svolto in una struttura istituzionale; sotto il profilo materiale, con riguardo al rischio pandemico, la dinamica di potenziale contatto con l’utente nello svolgimento del servizio era del tutto riconducibile a quella del locus istituzionale.

Secondo la tesi prospettata in ricorso, l’obbligo vaccinale di cui all’art. 4-bis del D.L. 1 aprile 2021, n. 44 non sarebbe stato applicabile al caso de quo, in quanto la lavoratrice si sarebbe “sempre e soltanto occupata di eseguire pulizie domiciliari dei locali” e, soprattutto, sarebbe difettato “il presupposto dell’accesso nei locali datoriali inquadrabili come strutture socio-sanitarie”.

Secondo la tesi in ricorso il rapporto di lavoro, per far scattare l’obbligo vaccinale previsto dalla normativa sul green pass, si sarebbe dovuto svolgere all’interno di locali del datore o comunque presso locali messi a disposizione dello stesso.

Diverso il caso dell’assistenza domiciliare ove l’operatore si reca invece, proprio in ragione del tipo di prestazione, presso il domicilio dell’assistito e non dunque presso il luogo di lavoro ordinario.

L’impresa sociale, assistita dallo Studio Legale Labour & Public, rilevava che è la stessa disciplina nazionale sull’assistenza domiciliare alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità che prevede che la prestazione di assistenza, anziché presso i locali e le sedi delle strutture pubbliche o dei soggetti accreditati o convenzionati, si realizzi direttamente presso l’abitazione dell’assistito, luogo che diventa il surrogato funzionale dei locali della struttura pubblica; esso  assume pertanto  la funzione di luogo di svolgimento del rapporto di lavoro, messo a disposizione dal datore o, come nel caso, dal committente del servizio di assistenza.

La difesa dello studio Labour and Public enfatizzava, inoltre, come il Servizio di Assistenza Domiciliare (S.A.D.) fosse rivolto a persone disabili – minori e adulti con patologie di tipo fisico, psichico e sensoriale – e alle persone anziane non autosufficienti. Tutti soggetti, dunque, estremamente vulnerabili, sia per età, sia per le patologie da cui sono affetti e, pertanto, particolarmente esposti agli effetti letali del contagio. Aggiungeva che la ricostruzione in ricorso, tesa a depotenziare il contenuto dell’obbligo vaccinale, in ragione delle modalità formali di svolgimento della prestazione (presso un domicilio privato) fosse del tutto irrilevante oltre che estranea alla ratio ispiratrice dei recenti interventi del legislatore nazionale in materia di obblighi vaccinali; si poneva soprattutto in contrasto con l’interpretazione logica e costituzionalmente orientata delle relative disposizioni. E infatti, il legislatore ha espressamente chiarito che la ratio dell’introduzione degli obblighi vaccinali risiede nell’obiettivo di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” (cfr. art. 4, comma 1, D.L. 44/2021).

Ed infatti, l’art. 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. 111/2021, convertito con modificazioni dalla L. 133/2021 (entrata in vigore il 02.10.2021) – con il chiaro intento di estendere, quanto più possibile, l’obbligo vaccinale – ha espunto ogni riferimento alla categoria soggettiva degli “esercenti le professioni sanitarie” e degli “operatori di interesse sanitario” – prevista dall’art. 4, comma 1, D.L. 44/2021 –; e lo ha fatto per ampliare l’obbligo vaccinale “a tutti i soggetti, anche esterni, che svolgono, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa”.

Anche sul piano dell’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, l’art. 4-bis ha eliminato ogni riferimento a “strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”, per menzionare, in generale, le “strutture di cui all’articolo 1-bis, incluse le strutture semiresidenziali e le strutture che, a qualsiasi titolo, ospitano persone in situazione di fragilità”.

È evidente che con la dizione strutture che, a qualsiasi titolo, ospitano persone in situazione di fragilità il legislatore abbia voluto spingersi ancora oltre, estendendo l’obbligo vaccinale anche a tutti quegli operatori sanitari – e non solo – che svolgono la propria prestazione lavorativa a domicilio, ossia in “strutture non istituzionalizzate” e non ricomprese nel precedente obbligo (art. 4 e art. 4-bis nella originaria formulazione).

L’ordinanza del Tribunale di Cagliari è di grande rilievo, poiché, tra le prime in Italia, fornisce un’interpretazione dell’art. 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. 111/2021, convertito con modificazioni dalla L. 133/2021.

Secondo il Giudice del Lavoro di Cagliari la portata applicativa dell’art. 4-bis, nella citata formulazione, “è quanto mai ampia soprattutto per effetto della introduzione dell’inciso finale mediante il quale il legislatore ha inteso evidenziare l’interesse primario dell’ordinamento rispetto alla tutela della persone in condizione di fragilità (…) sicchè la innovazione (…) concerne proprio la presenza, in qualunque contesto ambientale, di soggetti meritevoli, a cagione della precaria condizione psicofisica, della massima protezione.

Se così è appare quantomeno formalistica la tesi attorea che mira ad escludere dalle strutture che ospitano persone in situazione di fragilità il loro domicilio.

A seguire tale ragionamento coloro che vengono supportati (sia con riguardo più diretto alla loro persona che attraverso servizi di ordine meramente materiale) presso la loro abitazione sarebbero meritevoli di un livello di tutela più attenuato sol perché il luogo fisico ove ricevono assistenza e cura non è una casa di cura ovvero una residenza sanitaria o, comunque, un luogo non strettamente privato”.

Il Giudice prosegue nel proprio ragionamento affermando che “la ratio della disciplina in disamina non pare affatto essere quella propugnata in ricorso ove si abbia riguardo al valore preminente tutelato, ossia la salute dei soggetti più deboli, rispetto alla quale il luogo ove essi si materialmente trovano costituisce un mero elemento accidentale”; né rileva il fatto che la lavoratrice “sia addetta alle pulizie domestiche atteso che tali compiti comportano la prossimità con i beneficiari ed all’occorrenza anche il contatto con costoro giacché, in caso di necessità, l’operatore non può certamente esimersi dal prestare assistenza diretta al paziente con conseguente pericolo di esposizione al contagio dell’infezione da SarsCov-2”.

Orbene, secondo la prospettazione del Giudice cagliaritano, la ricorrente “è interessata dall’obbligo legale di sottoporsi alla vaccinazione, al quale pacificamente si è volontariamente sottratta con conseguente legittima sospensione dal lavoro”.

L’ordinanza si è, da ultimo, soffermata sulla presunta violazione, evidenziata nel ricorso, del regolamento europeo n. 953/2021 del 14 giugno 2021 e sul contrasto con le risoluzioni del Consiglio d’Europa numero 2361/2021 e numero 2383/2021, nonché sulla violazione degli artt. 1, 3, 4, 32 e 35 della Costituzione.

Quanto al richiamo della normativa eurounitaria, il Giudice ha osservato che “la materia degli obblighi vaccinali non costituisce in sé oggetto di una disciplina dell’Unione, e rispetto ad essa ogni Stato mantiene nell’ordinamento interno ampio margine di autonomia”. In ogni caso, con riguardo all’ambito applicativo del Regolamento 2021/953/UE “si ritiene che nulla impedisca agli Stati membri di introdurre, per ragioni di sanità pubblica, condizioni più restrittive, che abbiano una finalità legittima e siano con tale finalità proporzionate, in ambiti che, quale quello di specie, nonsono oggetto di disciplina unionale”.

Quanto all’asserito contrasto con varie disposizioni della Costituzione, il Giudice del Lavoro ha ritenuto, infine, non fondata la doglianza prospettata in ricorso, richiamando quanto chiarito, sul punto, dal Consiglio di Stato con sentenza n. 7045/2021.

Labour & Public – Studio legale e di consulenza – Prof. Avv. Sebastiano Bruno Caruso – Prof. Avv. Antonio Lo Faro – Prof. Avv. Loredana Zappalà

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